giovedì 26 gennaio 2012

Il mondo in una stanza

Quando compi 30 anni cambia tutto. O meglio ti accorgi che sei cambiata tu.
All'inizio è tragico, ma poi ti scopri e ti rendi conto che sei proprio una bella persona.
E' cambiato il tuo rapporto con gli oggetti, con gli spazi.
Per la prima volta vedi la tua dimensione. Non progetti, viaggi, fughe. La tua dimensione.
In cui ogni angolo ha un perché, ogni oggetto una storia e un legame affettivo con quei percorsi che ti hanno portato a essere quella che sei. Ogni minuto dedicato a pulire la tua stanza, a curare la tua piantina, a colorare la tua parete, a ordinare il tuo armadio, a scegliere il fermalibri, ad abbinare due soprammobili, ad appendere foto e poesie e citazioni di libri, significa costruire la tua dimensione.
Troppo facile chiamarlo "spazio". Per quanto mi riguarda lo spazio si trova al di fuori dell'atmosfera terrestre e non ha niente a che vedere con questa casa che è la mia dimensione.
E sì, mi permetto di parlare di "casa" anche se il mio affitto comprende solo una stanza.
Perché quando hai 30 anni (e sei stracazzofelice di averli) la tua dimensione inonda tutto.
E non capisci come facciamo gli altri, "giovani", a non capirlo.
Forse questo ti crea qualche problema di relazione, sopratutto quando hai una coinquilina viveur che non alza un dito dentro casa, ma te ne strafotti perché hai 30 anni e quindi il mondo è tuo. E "loro" ne hanno ancora 26, 27, 28, 29 e non capiscono un cazzo.
Cosa puoi saperne tu, vile ventisettenne, del piacere che si prova a comprare un vaso del colore che cercavi e a metterlo nell'ingresso così da rendere piacevole il rientro a casa?
Cosa ne sai tu, vile ventottenne, di cosa significa ritrovare al rientro a casa gli oggetti che simboleggiano la tua crescita difficile e dolorosa ma così maledettamente utile? Quel libro regalo di una cara amica, quel girasole preso in un momento di gioia infinita, quelle foto nascoste in un cassetto, quelle tende prese il giorno in cui sei arrivata, quella scarpiera e quell'armadio che hai montato da sola come se fosse stata la sfida più importante in quel momento, quel sacchetto di carta con una borsa di lana che stai creando tu con l'uncinetto e ogni piccolo dettaglio che non è una cosa, è una parte di te. 
Cosa ne sai tu, vile ventinovenne (per te è ancora peggio perché sei vicino ai 30 anni ma ancora sei come chi sta nella ventina per cui fatti poco il ganzo) di cosa significa avere qualcosa da lasciare?
Fidati che la sensazione non è la stessa prima dei 30 anni.
Anche tu provi queste cose ma le provi prima di un varco di cui non conosci neanche l'esistenza.
D'altronde lo vedi solo quando lo superi e ti giri indietro.
Comunque scherzo, non è una questione di 30 anni (ma anche sì). E' che è il momento di essere pienamente coscienti della propria dimensione e sopratutto, di imparare a rispettarla.
Perché se tu non sai quanta fatica mi è costata, be' lo so io. E il mio tempo non vale meno del tuo, il mio impegno non vale meno del tuo, la mia rabbia e la mia preoccupazione non valgono meno delle tue.
E' il momento di rimboccarsi le maniche per sé stessi stavolta, è stato facile combattere per gli altri o per altre cose. Più difficile combattere per la propria di felicità.
E se la mia felicità adesso passa per una cazzo di camera in ordine e di casa pulita, tu, caro ventineccetera, te ne vai affanculo. Senza neanche i saluti. 

lunedì 9 gennaio 2012

He cometido el peor de los pecados 
que un hombre puede cometer. No he sido 
feliz. Que los glaciares del olvido 
me arrastren y me pierdan, despiadados. 

Mis padres me engendraron para el juego 
arriesgado y hermoso de la vida, 
para la tierra, el agua, el aire, el fuego. 
Los defraudé. No fui feliz. Cumplida 

no fue su joven voluntad. Mi mente 
se aplicó a las simétricas porfías 
del arte, que entreteje naderías. 

Me legaron valor. No fui valiente. 
No me abandona. Siempre está a mi lado 
La sombra de haber sido un desdichado.

(Jorge Luis Borges)

Ho conosciuto questa meravigliosa poesia grazie a Manuela. E l'ho subito condivisa con una persona speciale.
Dopo la telefonata di questa sera ho ripensato a queste parole.
"Mis padre me engendraron para el juego arriesgado y hermoso de la vida, para la tierra, el agua, el aire, el fuego."
E ora mio padre, che ha amato profondamente la vita quando ha deciso di donarmela, si lascia andare.
Non riesce a combattere contro uno stupido rotolo di carta avvelenato di nicotina.
Non tiene alla sua vita, quella di cui io faccio parte. Allora non tiene a me.
Quando ho commesso il terribile peccato di smettere di amare la vita ho peccato io sola e me ne prendo la responsabilità. Questo significa che il tuo atteggiamento non riguarda me? Non è in fondo anche colpa mia se ami poco la vita? Se ti senti deluso?
Se tu non desideri vivere come posso farlo io al posto tuo?
Come posso accettare che sia proprio mio padre a non temere la morte? O meglio, a non amare la vita?
Parlo proprio io che tante volte ci avrei rinunciato.
Ma le lacrime di mia madre stasera hanno reso il pericolo ancora più concreto e per la prima volta ho capito quanto sto rischiando di perderti. E non per la gravità della situazione, ma per la mancanza di volontà di cambiamento.
Cosa devo fare papà? Perché non ti interessa rimanere con noi?